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Parte seconda  ( I parte)

Sintesi di "La malattia mortale" di Kirkegaard
a cura di Anna Iuppariello

  • La disperazione vista sotto la determinazione della consapevolezza

Il grado di consapevolezza nel suo movimento crescente corrisponde al grado di disperazione che continuamente aumenta: più consapevolezza, più disperazione.

Infatti, quanto più siamo incoscienti della disperazione, tanto più siamo in una specie di innocenza a cui corrisponde un grado minimo di disperazione.


1 La disperazione che ignora di essere disperazione, o l'ignoranza disperata di avere un io, anzi un io eterno

Di solito gli uomini sono poco disposti ad ammettere che il mettersi in rapporto con il vero sia il bene più alto, i più, infatti, lasciano che la loro sensualità prevalga più della loro intellettualità. Se un uomo crede di essere felice, si illude di essere felice, visto alla luce della verità non lo è; in un caso come questo è molto difficile che egli accetti di essere liberato da questo errore.

Tutto ciò deriva dal fatto che egli vive nella categoria della sensualità, che sono il piacevole e lo spiacevole, e abbandona lo spirito e la verità. Dunque, l'ignorare il proprio stato di disperazione non significa annullarlo, Infatti, se già la disperazione è negativa, l'ignorarla è una nuova negazione.

Tuttavia, che colui che ignora la sua disperazione è più lontano dalla verità e dalla salvazione rispetto a colui che ne è consapevole, vale solo nel senso puramente dialettico. Poiché, nel senso etico-dialettico, invece, colui che resta consapevolmente nella disperazione è più lontano dalla salvazione. Così, per colui che è consapevole e resta nella disperazione, la sua disperazione è più intensa, mentre per colui che ignora il proprio stato, si trova nella forma più pericolosa di disperazione.

A conti fatti, ribadiamo ciò che si è detto prima: più consapevolezza, più disperazione.

L'ignorarla è la forma di disperazione più comune al mondo. E' quella che il cristianesimo identifica nel paganesimo e nell'uomo naturale. A questo punto Kierkegaard mette in rilievo il paganesimo inteso in senso stretto e il paganesimo nel mondo cristiano: il primo manca di spirito perché non riconosce il rapporto con Dio e con l'io, ma è tuttavia determinato come rivolto verso lo spirito; mentre il secondo manca di spirito per un rifiuto di esso, ed è perciò in senso più stretto antispiritualità.



2 La disperazione che è consapevole di essere disperazione, consapevole, dunque, di avere un io nel quale è qualcosa di eterno, e ora o disperatamente non vuole essere se stessa, o disperatamente vuole essere se stessa

Qui Kierkegaard si propone di indagare le due forme della disperazione consapevole:

  • la corrispondenza tra il movimento ascendente della consapevolezza di ciò che è disperazione e la consapevolezza del proprio stato attuale di disperazione;

  • il movimento ascendente della consapevolezza del proprio io.

Esse coincidono, ma tuttavia meritano di essere osservate distintamente.


2.1 La disperazione di non voler essere se stesso, disperazione della debolezza

(A questo proposito Kierkegaard propone una nota nella quale mette in evidenza le differenze tra la disperazione femminile e quella virile.

Innanzitutto nel bambino non si può parlare di disperazione, ma solo di irritazione. Perché non si può esser certi che l'eterno esista nel bambino così come esiste nell'adulto.

Nella donna, il cui carattere essenziale è l'abbandonarsi a ciò che istintivamente ammira -infatti è stata dotata dalla natura di un istinto di fronte al quale persino la finitezza della riflessione più evoluta, quella dell'uomo, è nulla- la disperazione emerge proprio nel momento in cui, abbandonandosi, ella perde il proprio io. Del resto la donna è felice, è se stessa, solo abbandonandosi.

Nell'uomo la disperazione emerge, invece, come un “disperatamente voler essere se stesso”. Infatti, come la donna, anche l'uomo si abbandona -e chi non lo fa è un uomo senza valore, ma il suo non è propriamente un abbandono perché egli non perde mai la consapevolezza di se stesso, non perde mai il proprio io.

Nel rapporto con Dio la differenza tra uomo e donna sparisce: vale, infatti, sia per l'uomo che per la donna che l'io è abbandono e che mediante l'abbandono si giunge all'io; anche se, nella realtà, la donna si mette in rapporto con Dio solo attraverso l'uomo.)


Tutta questa nota per dire che :

  • la disperazione della debolezza (il non voler essere se stesso) può essere detta disperazione della femminilità,

  • mentre la disperazione dell'ostinazione (il voler essere se stesso) può essere detta disperazione della virilità.


      1. la disperazione per il terrestre o per qualcosa di terrestre

La disperazione per il terrestre (la totalità) o per qualcosa di terrestre (il particolare) è la specie più comune di disperazione. Kierkegaard ce ne propone due forme, osservando che la più diffusa è proprio la seconda:

  • disperazione come immediatezza pura. Qui l'io non ha alcuna consapevolezza della propria infinità, di ciò che è la disperazione o del proprio stato di disperazione. L'io è passivo, dipende immediatamente dall'altro, da tutto ciò che è temporale o mondano; così la disperazione è un patire che ha origine dall'esterno, semmai dalla privazione di qualcosa a cui, nel concreto, è particolarmente legato.

    La disperazione dell'uomo immediato assume la forma del “disperatamente non voler essere se stesso”, o nella forma più bassa del “disperatamente non voler essere un io”, o nella forma più bassa di tutte nel “disperatamente voler essere un altro”, diverso da se stesso, un altro io. Ma una tale disperazione non può che rientrare nella categoria del comico.

    Un tale disperato non conosce il proprio io se non attraverso l'esteriorità, per cui è convinto che un tale “cambiamento si possa effettuare con la stessa facilità con la quale si cambia un vestito”.

  • disperazione come immediatezza con una quantitativa riflessione interiore. Qui l'io ha una maggiore consapevolezza della propria infinità, di ciò che è la disperazione, e che ogni stato è disperazione. L'io comincia ad avere una certa attività; così la disperazione comincia ad assumere qui un senso, ora può essere causata non solo da qualcosa di esterno, ma anche dalla sua stessa riflessione interiore.

    La disperazione dell'uomo immediato che ha una certa riflessione interiore assume la forma di un “disperatamente non voler essere se stesso”. E' debolezza, ma fa un tentativo di difendere il suo io; egli mantiene il rapporto con il suo io (“di certo non gli viene in mente l'idea ridicola di voler essere un altro”, come commenta Kierkegaard).

La più diffusa, dunque, è proprio quest'ultima.

Ora, però, si deve abbandonare quel luogo comune secondo il quale una tale disperazione sia presente soltanto nell'età giovanile, ma non negli anni della maturità, capaci invece di cogliere maggiormente fede e sapienza. Kierkegaard, infatti, osserva che con gli anni è più facile perdere qualcosa che acquisirne di nuove; che, dunque, con gli anni è più facile entrare in contatto con la forma più triviale della disperazione, oppure, di maturare una consapevolezza maggiore del proprio io, in modo da disperarsi in una forma più alta. Ma essenzialmente la disperazione di un giovane o di un anziano è la stessa


      1. la disperazione dell'eterno o per se stesso

La disperazione per il terrestre o per qualcosa di terrestre è anche disperazione dell'eterno per se stesso, perché questa è la formula di ogni disperazione.

E da notare che Kierkegaard ritiene linguisticamente esatta tale distinzione:

Ci si dispera per il terrestre, dell'eterno, per se stesso.

Questo perché il motivo della disperazione è sempre quello dell'eterno, mentre i motivi per cui ci si dispera possono essere i più vari. Disperiamo per ciò che ci tiene fermi nella disperazione; disperiamo di ciò che ci libera dalla disperazione.

Riguardo all'io si può dire sia l'uno che l'altro, perché l'io è dialettico in duplice senso.

In tutte le forme più basse della disperazione, l'uomo sa sempre per cosa si dispera, ma mai di cosa si dispera. La condizione della guarigione è sempre che si cambi punto di vista; al che in filosofia potrebbe aprirsi un interrogativo: se è possibile che un individuo sia disperato avendo la completa consapevolezza di ciò di cui dispera.

Ora, questa forma di disperazione è un progresso considerevole rispetto a quella precedente, e la si vede più di rado nel mondo.

Infatti, mentre nella precedente l'io arriva fino alla consapevolezza della debolezza, qui giunge al piano della consapevolezza della propria debolezza. Il disperato si rende conto che è debolezza disperare per il terrestre; si rende conto di disperare dell'eterno. Ma, invece di umiliarsi davanti a Dio, egli sprofonda nella disperazione per la consapevolezza della propria debolezza; di aver perso l'eterno e se stesso.

La disperazione non è più soltanto un patire, ma un'azione; essa proviene in via indiretta dallo stesso io (a differenza dell'ostinazione che proviene dall'io in via diretta). Ciononostante questa disperazione ha ancora la forma del “disperatamente non voler essere se stesso”; l'io non vuole riconoscere se stesso dopo essere stato così debole.

Come si è detto, una tale disperazione si troverà nel mondo più di rado.

Colui che giunge a questa forma di disperazione potrebbe reagire o precipitandosi nella vita distraendosi con grandi imprese, come uno spirito irrequieto che vuole dimenticare; oppure elevare la propria disperazione ad una forma più alta, ma chiusa in se stessa, facendola diventare ostinazione. Il disperato assumerebbe allora l'atteggiamento della taciturnità.


2.2 La disperazione di voler essere disperatamente se stesso, l'ostinazione

Si è appena visto come sia immediato il passaggio dalla disperazione per la propria debolezza all'ostinazione. Ora mentre la prima assumeva la forma del “non voler essere se stesso”, questa abusa dell'eterno che è nell'io per “voler essere disperatamente se stesso”.

Abbiamo fatto un ulteriore passo avanti nell'accrescimento della consapevolezza dell'io.

Qui la disperazione è consapevole di essere un'azione, non proviene dall'esterno, non è un patire sotto il peso del mondo esterno, ma viene direttamente dall'io, dalla consapevolezza della sua infinità. Quello stesso io che “vuole disperatamente essere se stesso”, distaccandosi dalla potenza che l'ha posto, e persino staccandosi dall'idea che una tale potenza esista.

Per spiegare più precisamente questa forma di disperazione, è necessario distinguere fra un io attivo e un io passivo.

  • Se l'io disperato è attivo nel suo rapporto con se stesso, allora non fa altro che sperimentare se stesso. Pur cercando con tutti i suoi sforzi di essere se stesso, finisce per arrivare al contrario, si rivela sempre più come un io ipotetico.

    L'io disperato, dunque, non fa altro che costruire castelli in aria e combattere mulini a vento”.

  • Se l'io disperato è passivo nel suo rapporto con se stesso, allora non fa altro che imbattersi in difficoltà, “in ciò che il cristiano chiamerebbe una croce”. Dapprima reagirebbe cercando di metterle da parte, facendo finta di nulla; ma poi, non riuscendoci, se ne sentirebbe inchiodato.


Gettando uno sguardo a tutto il percorso fatto finora si può vedere che, nella disperazione per il terrestre o per qualcosa di terrestre, l'uomo non ha voluto lasciarsi consolare o guarire dall'eterno (ha dato così tanto valore al terrestre che l'eterno non costituisce più alcuna consolazione); nella disperazione di chi vuole disperatamente se stesso, l'uomo non vuole più alcun aiuto da altri, che siano uomini o Dio stesso, e preferisce piuttosto portare avanti da solo la sua croce, la sua spina nelle carni, piuttosto che cedere.

L'origine del demoniaco è spesso questa: un io che disperatamente vuol essere se stesso si addolora di quest'io, di quell'altro difetto penoso che ormai non si può più togliere o separare dal suo io concreto. Proprio su questo tormento egli concentra tutta la sua passione, che finalmente diventa frenesia demoniaca. Ora, se Dio o tutti gli angeli gli offrissero aiuto, gli non ne vorrebbe più, ora è troppo tardi.


Questa forma di disperazione si trova difficilmente nel mondo. Non ha un'esteriorità corrispondente, poiché se qualcosa corrispondesse alla taciturnità, allora si rivelerebbe, e questa sarebbe una contraddizione in se stessa.

Infatti, quanto più la disperazione si fa spirituale, tanto più tende ad eliminare ogni esteriorizzazione

DISPERAZIONE E' IL PECCATO


A. LA DISPERAZIONE E' IL PECCATO


Ciò che fa della disperazione il peccato è l'idea di Dio ossia la consapevolezza dell'io di essere davanti a Dio). Così il peccato è la disperazione elevata a potenza, nella debolezza e nell'ostinazione.

Il peccato è: davanti a Dio disperatamente non voler essere se stesso, o davanti a Dio disperatamente voler essere se stesso”.

Qui Kierkegaard propone la descrizione dell'esistenza di poeta, che ha qualcosa in comune con la disperazione della rassegnazione, solo che è presente l'idea di Dio.

Dal punto di vista cristiano ogni esistenza di poeta, con tutta la sua bellezza estetica, è peccato; il peccato di poetare invece che di essere, di mettersi in rapporto con il bene e con il vero attraverso la fantasia invece di esserlo, cioè di tendere esistenzialmente ad esserlo.

L'esistenza di poeta di cui si parla qui è differente dalla disperazione perché ha in sé l'idea di Dio; ciononostante non si distingue fino a che punto sia vagamente consapevole di essere peccato. Infatti, un tale poeta ha un profondo slancio religioso e ama Dio sopra ogni cosa, come “unico conforto per il suo tormento segreto; [...] come l'unica sua felicità”. Ma ama pure il tormento e non vuole lasciarlo andare.

Egli vuole essere volentieri se stesso davanti a Dio, ma riguardo al solo punto della sua sofferenza egli disperatamente non vuole essere se stesso. Egli, dunque, continua a tenersi in rapporto con Dio, pur non decidendo mai di umiliarsi, accettandolo, credendo.

Nel suo rapporto con la religione non è mai, in senso stretto, un credente. Ha raggiunto solo il primo grado della fede, la disperazione, e con essa un desiderio ardente della religione.


  • Le gradazioni nella consapevolezza del proprio io (determinazione: davanti a Dio)

Finora è stata dimostrata una gradazione nella consapevolezza del proprio io.

Il primo grado era l'ignoranza di avere un io eterno; il secondo la consapevolezza di avere un io in cui c'è qualche cosa di eterno, ed entro questo grado sono state dimostrate altre gradazioni.

A tutte queste considerazioni bisogna ora dare un'interpretazione dialettica.

Il problema è questo: tutte le gradazioni evidenziate finora si sviluppano entro la determinazione dell'io umano, o dell'io a cui misura è l'uomo; ma l'io, considerato davanti a Dio, assume la determinazione dell'io teologico, o io di cui la misura è Dio. (Per trovare la “misura” dell'io bisogna domandarsi che cosa sia ciò di fronte a cui esso è io).

Kierkegaard riconosce alla dogmatica antica di aver riconosciuto il fatto che il peccato diventa orribile proprio per il fatto che è compiuto davanti a Dio; tuttavia, l'errore nel modo di considerare Dio come qualcosa di esteriore e di supporre che si peccasse contro Dio solo qualche volta. Ma ogni peccato è davanti a Dio, o piuttosto la ragione per cui ogni colpa umana diventa peccato è che il colpevole aveva la consapevolezza di esistere davanti a Dio. Infatti “il peccato non è la sfrenatezza della carne e del sangue, ma il consenso che vi da lo spirito”.

Ora, più è completa l'idea di Dio, più è completo l'io. Più completo è l'io, più completa è l'idea di Dio. E' per questo che il peccato del pagano e dell'uomo naturale, che hanno come misura l'io meramente umano, è solo quello di “essere nel mondo senza Dio”, ossia di ignorare l'idea di Dio.


Molto spesso gli uomini hanno ritenuto che il contrario di peccato fosse la virtù, mentre invece è la fede. Come recita la Lettera ai Romani (14, 23): “Tutto ciò che non è fede è peccato”.


Aggiunta: che la definizione del peccato abbia in sé la possibilità dello scandalo; un'osservazione in generale sullo scandalo


E' proprio la definizione cristiana di peccato ad aprire la possibilità dello scandalo.

Infatti, il cristianesimo insegna che ogni singolo uomo, qualunque sia la sua condizione, esiste davanti a Dio; può, dunque, parlare con lui in qualsiasi momento, sicuro di essere ascoltato. Inoltre, per amore di quest'uomo, Dio stesso è venuto nel mondo, nascendo, soffrendo e morendo; e questo Dio sofferente prega quasi e supplica l'uomo di accettare l'aiuto che gli si offre.

Ora, agli occhi del pagano e dell'uomo naturale sembra che il cristianesimo dia troppa importanza all'uomo. Ecco il movente dello scandalo: questo “troppo stroppia”, se fosse stato un po' meno allora avrebbero potuto acconsentirvi.

Kierkegaard aggiunge che per comprendere lo scandalo bisogna studiare l'invidia umana.

L'invidia è un'ammirazione nascosta. Un uomo che ammira e sente di non poter trovare la felicità abbandonando se stesso, sceglie di invidiare ciò che ammira. Così l'ammirazione, che è felice rinunzia a se stesso, si trasforma in invidia, infelice affermazione di se stesso.

Ciò che nel rapporto tra uomo e uomo è ammirazione-invidia, nel rapporto tra Dio e uomo è adorazione-scandalo.


  • La definizione socratica del peccato

Per Socrate, che è l'emblema dell'intellettualità greca, il peccato è: ignoranza.

Per cui non può verificarsi mai il caso di un uomo che, conoscendo il bene, faccia il male, oppure conoscendo il male, faccia questo male. In altre parole, la grecità non ha il coraggio di dichiarare che un uomo possa volontariamente fare ciò che non è giusto; e così si aiuta dicendo che se uno fa il male è perché non ha compreso il bene.

Ma, in questo discorso, Kierkegaard rileva un inconveniente significativo: manca una determinazione dialettica riguardo al passaggio dalla comprensione al fare.

Nella grecità, infatti, questo passaggio è immediato; e lo stesso vale per la filosofia moderna, la quale si basa sul cogito ergo sum (pensare è essere). In questo modo si vede che la filosofia moderna non è né più né meno che paganesimo; tuttavia non è ancora questo il fondo della questione. Il problema sorge quando la filosofia moderna vuole spacciarsi per cristianesimo.

Così Kierkegaard si fa ancora una volta sostenitore del messaggio cristiano, e dimostra che il passaggio dalla comprensione al fare è nella volontà. Cioè che se l'uomo non comprende il bene è perché non lo vuole comprendere, e non lo vuole comprendere perché non vuole il bene.

L'uomo giunge ad una tale consapevolezza grazie alla rivelazione, che lo illumina sull'essenza del peccato per chiarire che la sua origine dipende direttamente dalla volontà umana. Infatti, nessun uomo può dire da se stesso cosa sia il peccato, appunto perché egli è nel peccato e tutto quello che dice del peccato non è altro che una giustificazione.


La definizione del peccato data nel capitolo precedente deve essere perciò completata così: il peccato è che l'uomo, dopo aver saputo, per mezzo di una rivelazione da Dio, che cosa è il peccato, davanti a Dio disperatamente non vuole se stesso, o disperatamente vuole se stesso.


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